«Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa".»
Dante Alighieri, Inferno III, 49-51
Ho letto un interessante articolo di Carlo Stasolla a proposito delle ultime “dichiarazioni” di Salvini che invoca la “pulizia di massa con maniere forti”. Trovo condivisibili i contenuti dell’articolo di Stasolla ma oltre alla mobilitazione delle coscienze forse è anche necessario un richiamo alle istituzioni. Perché siano tali!
Esiste o no un dispositivo penale in questo paese che punisce l’apologia di reato? Esiste o no un reato di istigazione a delinquere? Esiste ancora l’obbligatorietà dell’azione penale della magistratura o no? Domande retoriche, perché l’istigazione a delinquere esiste eccome, ancora non l’hanno depenalizzata come è stato fatto con l’abuso di credulità popolare (significativamente depenalizzato da Renzi, immagino con tacita gioia di Grillo!), l’obbligatorietà dell’azione penale esiste eccome. Allora perché non si procede nei confronti di Salvini o di qualunque altro apologeta del reato? Di quali “maniere forti” parla? Glielo vogliamo chiedere o aspettiamo una marcia su Roma delle camicie verdi? Tempo fa in questo paese ci furono istituzioni ignave che nel timore di accendere i fuochi della rivolta non contrastarono le minacce degli squadristi neri, anzi ne accordarono il comando. Stiamo facendo la stessa cosa oggi con gli squadristi verdi?
Mi sbaglierò ma spesso mi capita di pensare che l’ignavia muova la storia più dell’azione. Sì, l’ignavia di pochi cui non può che seguire la reazione di altri. Reazione che non perdiamo occasione di dissezionare, analizzare e spesso ignobilmente condannare. Virgilio sbaglia quando dice a Dante di non ragionare degli ignavi, forse non resta fama di loro ma lasciano tracce profonde nella storia del mondo, eccome se ne lasciano. Quando invece delle camicie verdi si usavano le camicie nere la parabola dell’ignavia per evitare una guerra civile si concluse (o si sospese) con una guerra civile. Stiamo imboccando di nuovo quella parabola?
Ma non facciamoci prendere da preoccupazioni premature. Restiamo fiduciosi in attesa della prossima celebrazione commemorativa per lanciare un autorevole monito alle forze politiche perché si facciano garanti della civile convivenza.
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
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lunedì 20 febbraio 2017
mercoledì 8 febbraio 2017
Del ricordo ben temperato
La Storia non è mai stata avara di crimini. Ovunque volgiamo lo sguardo non c'è possibilità di non scorgerne, basta aguzzare la vista. Ma più che di criminali la storia è generosa di imbecilli che spesso fanno la loro comparsa in concomitanza di ricorrenze vere o costruite, necessarie o strumentali, oppure necessarie e strumentali. E' il caso del giorno del ricordo delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata. Ricorrenza necessaria perché è giusto fare luce sulle pagine dimenticate della storia, strumentale perché la ricorrenza è occasione di visibilità per manipolatori e altre varietà di imbecilli che se non fanno la storia certamente l'affollano. E' doveroso ricostruire la vicenda delle foibe e dell'esodo ma è ignobile raccontare la storia piegandola agli scopi più biechi. Ritengo che la forma più alta di rispetto delle vittime della storia sia la ricostruzione più fedele possibile dei fatti, per quanta fatica costi.
Facendo finta di ignorare le palesi falsificazioni, le menzogne sui numeri o le foto degli eccidi nazifascisti fatti passare per crimini commessi dai partigiani jugoslavi, vedo essenzialmente due modi di manipolare la storia delle foibe. Il primo è raccontare la storia delle foibe incorniciandola in uno sfondo incompleto, a partire da un certo momento e tralasciando precedenti essenziali alla dinamica dei fatti, come l'occupazione italiana di quei territori e la snazionalizzazione delle comunità slave che ne è seguita, ovvero proibizione della lingua madre, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e via e via. Snazionalizzazione cominciata dalla fine della prima guerra mondiale e inferocita con il ventennio fascista: l'unico vero grande rimosso della storia nazionale, "l'autobiografia di una nazione", scrisse Gobetti. Il secondo modo per manipolare la storia è confrontare le foibe con altri fatti storici con cui condividerebbero la matrice criminale. Il riflesso pavloviano di solito produce l'associazione tra foibe e shoah, preludio che ha la sua apoteosi nell'equivalenza tra nazismo e comunismo. L'autore di questo percorso mentale difficilmente verrà convinto da argomenti logici e razionali, dalla ricostruzione dei fatti e dalla verifica documentale.
Per quanto arduo sia il compito di chi vuole ristabilire un po' di ordine nell'emotività usata subdolamente dai cosiddetti revisionisti, resta il dovere di raccomandare buone letture almeno a chi è sfiorato dal dubbio che le cose non siano andate proprio come le racconta chi si riempie la bocca di frasi fatte senza citare fonti per piegare la storia al proprio tornaconto più o meno ideologico.
Per ricordare bene bisogna sapere, altrimenti si affastellano dichiarazioni a vanvera, si rincorrono numeri a casaccio, date disordinate, falsi storici e narrazioni infedeli. Poiché nei prossimi giorni si moltiplicheranno i "ricordi" più o meno sinceri propongo un articolo di Lorenzo Filipaz, pubblicato un paio di anni fa dal collettivo Wu Ming (i commenti all'articolo sono altrettanto interessanti), e uno speciale di patria indipendente del 2005, la rivista dell'ANPI, dedicato alla storia delle foibe. Inoltre invito a leggere il rapporto della Commissione istituita nel 1993 dai Ministeri degli esteri dell'Italia e della Slovenia con il compito di fare il punto sulla ricerca storica dei rapporti tra i due paesi. Questo almeno per quanto riguarda il materiale reperibile in rete. Nelle librerie si trova altro, come i testi suggeriti in calce all'articolo di Filipaz.
Qualcuno potrebbe dire che il materiale che propongo è di fonte partigiana, di parte appunto. Non è il caso del rapporto della commissione italo-slovena. Il rapporto è pubblicato dalla rivista patria indipendente ma è da considerarsi se non "al di sopra delle parti" almeno una versione condivisa tra storici italiani e sloveni, per quanto io stesso sono perplesso dal ricorso a una commissione bilaterale per stabilire una verità storica. Sebbene in alcuni casi sia necessario individuare un punto di partenza comune la Storia non è oggetto di mediazione. Per il resto non mi curo dell'accusa di partigianeria. Gramsci sosteneva che "vivere vuol dire essere partigiani" e io ne sono fermamente convinto. Inoltre esigo dalla partigianeria in materia storica il rigore della prova documentale. Quindi l'eventuale "revisionismo" della storia nota finora deve fornire materiale supportato da prove documentali. Senza questa conditio sine qua non non vedo alcuna ragione per una discussione sul tema delle foibe con revisionisti improvvisati, propagandisti a piede libero, bufalopoieti professionisti e altri simili sventurati che popolano il web e non solo.
Facendo finta di ignorare le palesi falsificazioni, le menzogne sui numeri o le foto degli eccidi nazifascisti fatti passare per crimini commessi dai partigiani jugoslavi, vedo essenzialmente due modi di manipolare la storia delle foibe. Il primo è raccontare la storia delle foibe incorniciandola in uno sfondo incompleto, a partire da un certo momento e tralasciando precedenti essenziali alla dinamica dei fatti, come l'occupazione italiana di quei territori e la snazionalizzazione delle comunità slave che ne è seguita, ovvero proibizione della lingua madre, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e via e via. Snazionalizzazione cominciata dalla fine della prima guerra mondiale e inferocita con il ventennio fascista: l'unico vero grande rimosso della storia nazionale, "l'autobiografia di una nazione", scrisse Gobetti. Il secondo modo per manipolare la storia è confrontare le foibe con altri fatti storici con cui condividerebbero la matrice criminale. Il riflesso pavloviano di solito produce l'associazione tra foibe e shoah, preludio che ha la sua apoteosi nell'equivalenza tra nazismo e comunismo. L'autore di questo percorso mentale difficilmente verrà convinto da argomenti logici e razionali, dalla ricostruzione dei fatti e dalla verifica documentale.
Per quanto arduo sia il compito di chi vuole ristabilire un po' di ordine nell'emotività usata subdolamente dai cosiddetti revisionisti, resta il dovere di raccomandare buone letture almeno a chi è sfiorato dal dubbio che le cose non siano andate proprio come le racconta chi si riempie la bocca di frasi fatte senza citare fonti per piegare la storia al proprio tornaconto più o meno ideologico.
Per ricordare bene bisogna sapere, altrimenti si affastellano dichiarazioni a vanvera, si rincorrono numeri a casaccio, date disordinate, falsi storici e narrazioni infedeli. Poiché nei prossimi giorni si moltiplicheranno i "ricordi" più o meno sinceri propongo un articolo di Lorenzo Filipaz, pubblicato un paio di anni fa dal collettivo Wu Ming (i commenti all'articolo sono altrettanto interessanti), e uno speciale di patria indipendente del 2005, la rivista dell'ANPI, dedicato alla storia delle foibe. Inoltre invito a leggere il rapporto della Commissione istituita nel 1993 dai Ministeri degli esteri dell'Italia e della Slovenia con il compito di fare il punto sulla ricerca storica dei rapporti tra i due paesi. Questo almeno per quanto riguarda il materiale reperibile in rete. Nelle librerie si trova altro, come i testi suggeriti in calce all'articolo di Filipaz.
Qualcuno potrebbe dire che il materiale che propongo è di fonte partigiana, di parte appunto. Non è il caso del rapporto della commissione italo-slovena. Il rapporto è pubblicato dalla rivista patria indipendente ma è da considerarsi se non "al di sopra delle parti" almeno una versione condivisa tra storici italiani e sloveni, per quanto io stesso sono perplesso dal ricorso a una commissione bilaterale per stabilire una verità storica. Sebbene in alcuni casi sia necessario individuare un punto di partenza comune la Storia non è oggetto di mediazione. Per il resto non mi curo dell'accusa di partigianeria. Gramsci sosteneva che "vivere vuol dire essere partigiani" e io ne sono fermamente convinto. Inoltre esigo dalla partigianeria in materia storica il rigore della prova documentale. Quindi l'eventuale "revisionismo" della storia nota finora deve fornire materiale supportato da prove documentali. Senza questa conditio sine qua non non vedo alcuna ragione per una discussione sul tema delle foibe con revisionisti improvvisati, propagandisti a piede libero, bufalopoieti professionisti e altri simili sventurati che popolano il web e non solo.
giovedì 2 febbraio 2017
Suggerimenti dalla Storia
La procedura per l’elezione del Papa non è sempre stata come la conosciamo. Oggi sappiamo che i cardinali elettori si riuniscono in conclave, una sala chiusa e inaccessibile, clausi cum clave appunto, ma non è sempre stato così. L’ambiente ecclesiastico si è sempre distinto per una certa riservatezza ma all'attuale modalità di elezione si è arrivati dopo alcuni passaggi decisivi della Storia.
In origine a eleggere il Papa era il clero e il popolo della comunità cristiana di Roma. Ebbene sì, anche il popolo partecipava all’elezione del Papa ma non pensate a una procedura democratica, le potenti famiglie romane decidevano e il popolo acclamava o meno in funzione delle alleanze e degli scontri tra le stesse famiglie romane che influenzavano il popolo. Un circolo vizioso, diremmo oggi. Il risultato era spesso una sfilza di papi e antipapi, un putiferio! Nel 769 si pensò che era meglio togliere ai laici il diritto di rifiutare l’eletto per evitare interferenze da parte dell'imperatore ma quel diritto fu reintrodotto appena un secolo dopo. Fu una storia travagliata di potere spirituale e temporale a contendersi il primato, contesa i cui strascichi si sentono ancora oggi, ma questo è un altro discorso. Nel 1059, in pieno scontro per le investiture, Niccolò II decise che l’elezione del papa spettava ai soli cardinali vescovi, tanto per chiarire chi comandava sull’elezione del Pontefice. Da allora l’elezione del papa è avvenuta sempre con una certa discrezione, anche se la prima vera elezione cum clave è avvenuta nel 1118 con Gelasio II. Ma fu tra il 1268 e il 1271 che accadde qualcosa di importante, un vero e proprio tornante nella Storia dell’elezione dei papi. Sebbene i cardinali elettori furono messi sotto chiave in maniera coercitiva perché si dessero una mossa già dai perugini nel 1216 e dai romani nel 1241, furono i viterbesi nel 1270 a superare ogni precedente. Furono straordinari.
All’epoca la sede papale era a Viterbo e alla morte di Clemente IV occorreva eleggere il successore. Come si dice, morto un papa se ne fa un altro. E’ na parola, dicono a Roma per esprimere stupore di fronte a una ingenua sottovalutazione della complessità di un problema!
Per quella elezione il Sacro Collegio ci mise 1006 giorni, dal 29 novembre 1268 al 1° settembre 1271. Quasi tre anni! Poiché "maxima est discordia" tra i cardinali, questa benedetta colomba dello spirito non c’era verso che scendesse per portare il suo sacro consiglio. E neanche a dire che i cardinali erano una moltitudine. Erano solo 20 e uno morì pure durante l'estenuante prova. Ne restarono solo 19! I cardinali erano divisi in due partiti Pars Caroli (filofrancese e filoangioina, o guelfa) che contava 7 o 8 cardinali, e la Pars Imperii (filotedesca, o ghibellina), cui facevano riferimento una decina di cardinali, due dei quali, peraltro, morirono durante le votazioni. Ne restarono solo 17! Questi erano i partiti più importanti. Sorvoliamo sulle divisioni tra le diverse famiglie. Chi spingeva di qua, chi di là. Non c'era verso che si trovasse un accordo su un nome da eleggere.
Pare che all'inizio i cardinali decisero volontariamente la clausura e per starsene tranquilli stipularono un accordo con il podestà e il capitano del popolo di Viterbo perché fosse garantita la giusta serenità dei porporati e il controllo delle strade che all'epoca erano più pericolose di quelle di Detroit. Ma nonostante la tranquillità garantita il tempo passava invano, anche perché, diciamola tutta, i cardinali non si sbattevano di fatica. Ci volle quasi un anno prima di mettersi d'accordo su un nome e questo sventurato era Filippo Benizi, Priore Generale dell'Ordine dei Serviti, religioso in odore di santità che appena saputa la notizia delle intenzioni di eleggerlo Papa si da a gambe levate preferendo a quel covo di serpi la vita da eremita sul Monte Amiata. Dopo di lui il Sacro Colleggio pensò a Bonaventura da Bagnoregio, successore di San Francesco d'Assisi come generale dell'Ordine Francescano, ma pure lui pare abbia pensato ai versetti 8,33 del Vangelo di Marco quando è stato raggiunto dalla ferale notizia. Nella buona novella Gesù pronunciò quel "Vade retro Satana" che molti pensano abbia detto quando era nel deserto. No no, lo disse proprio a Pietro, andate a controllare. Il massimo che quel sant'uomo di Bonaventura poteva fare era una serie di prediche per sollecitare l'elezione del successore di Pietro. Anzi, alcune fonti dicono che sia stato proprio lui a sollecitare "i viterbesi a rinserrare tutti i cardinali affinché in tal guisa ristretti si risolvessero di conchiudere la sospirata elezione".
Neanche le prediche di Bonaventura sortirono il sospirato effetto. Le cose precipitarono, dopo più di un anno non si aveva ancora il papa e i viterbesi cominciavano a rumoreggiare. A quel punto il podestà Alberto di Montebuono e il capitano del Popolo Raniero Gatti, uomo di modi sbrigativi, presero in mano la situazione e decisero di chiudere materialmente nel palazzo papale i cardinali fino a che non fosse stato eletto il nuovo papa. Questo era un vero conclave! Li chiusero letteralmente a chiave. Murarono le uscite e arrivederci con il nuovo papa. I cardinali non la presero bene e scomunicarono il podestà. Da parte sua Raniero Gatti, meno diplomatico del podestà, prese in parola una battuta del cardinale inglese Giovanni da Toledo che disse agli altri porporati: «Discopriamo, signori, questo tetto; dacché lo Spirito Santo non riesce a penetrare per cosiffatte coperture.» Fu così che intorno alla Pentecoste del 1270, il 1° giugno, i viterbesi scoperchiarono parte del tetto del palazzo papale, sperando in questo modo di rendere facile il passaggio della santa colomba sul sacro consesso. Inoltre, per favorire la santità del collegio attraverso la pratica del digiuno furono ridotte le razioni di pasti per i cardinali.
In verità questa segregazione non durò a lungo. Il tetto fu fatto riparare dopo tre settimane dalle autorità comunali e fu consentito ai cardinali di occupare le altre stanze del palazzo papale. Rimase solo il divieto di lasciare il palazzo fino a elezione avvenuta. E i viterbesi fecero male a mollare la presa, perché i cardinali a quel punto se la presero comoda per un altro anno. Ma dopo più di 1000 giorni i cardinali, provati dallo sforzo e ansiosi di rivedere famigliari e amanti, decisero di tagliare corto. Il 1° settembre 1271 quindici cardinali, due erano assenti (ne restarono solo 15!), decisero di applicare il compromissum, ovvero affidarono a sei di loro il compito di eleggere il successore di Pietro, una sorta di commissione parlamentare. La decisione fu presa in quello stesso giorno dai sei membri e successivamente fu approvata e ratificata da tutti. Habemus papam!
And the winner is..., rullo di tamburi..., Tebaldo Visconti, arcidiacono di Liegi, che non era cardinale e neanche sacerdote. Più compromesso di così! Non aveva ricevuto i voti sacerdotali ma in compenso era considerato uomo onesto e saggio e per giunta aveva un impeccabile curriculum vitae et studiorum. Aveva fatto esperienza all'estero ed era collega all'università di Parigi di, udite udite, Tommaso d'Aquino. Insomma, non era uno sprovveduto. Al momento dell'elezione al soglio pontificio era in missione all'estero, al seguito del principe Edoardo d'Inghilterra in una qualche crociata in terra santa, all'epoca se ne facevano molte. Per fargli avere la notizia dell'elezione ci vollero quattro mesi. Non era come adesso che mandi una mail con un click. Una volta tornato in patria fece una carriera ecclesiastica fulminea. Venne ordinato prima sacerdote, poi vescovo e poi papa. Quando si dice un avanzamento professionale prodigioso! Era il marzo del 1272 e dopo più di tre anni dalla morte del precedente papa venne intronizzato il nuovo papa con il nome di Gregorio X.
Sebbene Gregorio X non avesse vissuto direttamente l'esperienza dell'elezione quando gliel'hanno raccontata deve essere rimasto parecchio impressionato. Per questo decise di approvare il conclave come metodo per eleggere il pontefice. Con la costituzione apostolica Ubi Periculum venivano stabilite le regole per l'elezione dei papi. Gregorio X prese a modello quanto avevano fatto i viterbesi. In poche parole i cardinali elettori sarebbero stati tutti segregati in un'aula, senza contatti con il mondo esterno e con graduale riduzione di cibo. In particolare la Costituzione apostolica precisava che, dopo tre giorni, il cibo veniva ridotto a un solo piatto a pranzo e a cena e che, dopo altri cinque giorni, sarebbe stato consentito solo il passaggio di pane, acqua e un po' di vino fino a elezione avvenuta con la regola dei due terzi sulla maggioranza dei votanti. E' interessante anche come la Costituzione stabilisse che ai negligenti sarebbe toccata la scomunica, la privazione dei pubblici uffici e l'attribuzione del titolo di infami.
Sia pure con le modifiche dettate dai tempi queste norme regolano ancora oggi lo svolgimento del conclave per l'elezione del papa.
Ecco in sintesi come si è arrivati al conclave così come lo conosciamo oggi. Voi mi direte, dov'è il suggerimento dalla Storia evocato dal titolo di questo post? Sarò breve.
Non so da quant'è che ci stanno martellando i cabasisi con la legge elettorale. Stabilito che solo un citrullo può aver concepito l'italicum e che solo un citrullo ha concepito il porcellum, c'è chi vuole il mattarellum, chi il legalicum, chi il consultellum e via vaneggiando con altre perle preziose di latinorum. Quanto durerà questa indecente pantomima?
Ma se si facesse come hanno fatto i viterbesi nel 1270?
Con i parlamentari dentro vengono murate le vie d'uscita di palazzo di Montecitorio e di palazzo Madama, ovviamente senza arrecare danni ai palazzi che oggi fortunatamente la sensibilità architettonica non è quella del XIII secolo. Si lascia il passaggio per qualche frugale vettovaglia da fornire solo nei primi giorni, poi neanche quella fino a legge elettorale approvata.
Come la vedete?
In origine a eleggere il Papa era il clero e il popolo della comunità cristiana di Roma. Ebbene sì, anche il popolo partecipava all’elezione del Papa ma non pensate a una procedura democratica, le potenti famiglie romane decidevano e il popolo acclamava o meno in funzione delle alleanze e degli scontri tra le stesse famiglie romane che influenzavano il popolo. Un circolo vizioso, diremmo oggi. Il risultato era spesso una sfilza di papi e antipapi, un putiferio! Nel 769 si pensò che era meglio togliere ai laici il diritto di rifiutare l’eletto per evitare interferenze da parte dell'imperatore ma quel diritto fu reintrodotto appena un secolo dopo. Fu una storia travagliata di potere spirituale e temporale a contendersi il primato, contesa i cui strascichi si sentono ancora oggi, ma questo è un altro discorso. Nel 1059, in pieno scontro per le investiture, Niccolò II decise che l’elezione del papa spettava ai soli cardinali vescovi, tanto per chiarire chi comandava sull’elezione del Pontefice. Da allora l’elezione del papa è avvenuta sempre con una certa discrezione, anche se la prima vera elezione cum clave è avvenuta nel 1118 con Gelasio II. Ma fu tra il 1268 e il 1271 che accadde qualcosa di importante, un vero e proprio tornante nella Storia dell’elezione dei papi. Sebbene i cardinali elettori furono messi sotto chiave in maniera coercitiva perché si dessero una mossa già dai perugini nel 1216 e dai romani nel 1241, furono i viterbesi nel 1270 a superare ogni precedente. Furono straordinari.
All’epoca la sede papale era a Viterbo e alla morte di Clemente IV occorreva eleggere il successore. Come si dice, morto un papa se ne fa un altro. E’ na parola, dicono a Roma per esprimere stupore di fronte a una ingenua sottovalutazione della complessità di un problema!
Per quella elezione il Sacro Collegio ci mise 1006 giorni, dal 29 novembre 1268 al 1° settembre 1271. Quasi tre anni! Poiché "maxima est discordia" tra i cardinali, questa benedetta colomba dello spirito non c’era verso che scendesse per portare il suo sacro consiglio. E neanche a dire che i cardinali erano una moltitudine. Erano solo 20 e uno morì pure durante l'estenuante prova. Ne restarono solo 19! I cardinali erano divisi in due partiti Pars Caroli (filofrancese e filoangioina, o guelfa) che contava 7 o 8 cardinali, e la Pars Imperii (filotedesca, o ghibellina), cui facevano riferimento una decina di cardinali, due dei quali, peraltro, morirono durante le votazioni. Ne restarono solo 17! Questi erano i partiti più importanti. Sorvoliamo sulle divisioni tra le diverse famiglie. Chi spingeva di qua, chi di là. Non c'era verso che si trovasse un accordo su un nome da eleggere.
Pare che all'inizio i cardinali decisero volontariamente la clausura e per starsene tranquilli stipularono un accordo con il podestà e il capitano del popolo di Viterbo perché fosse garantita la giusta serenità dei porporati e il controllo delle strade che all'epoca erano più pericolose di quelle di Detroit. Ma nonostante la tranquillità garantita il tempo passava invano, anche perché, diciamola tutta, i cardinali non si sbattevano di fatica. Ci volle quasi un anno prima di mettersi d'accordo su un nome e questo sventurato era Filippo Benizi, Priore Generale dell'Ordine dei Serviti, religioso in odore di santità che appena saputa la notizia delle intenzioni di eleggerlo Papa si da a gambe levate preferendo a quel covo di serpi la vita da eremita sul Monte Amiata. Dopo di lui il Sacro Colleggio pensò a Bonaventura da Bagnoregio, successore di San Francesco d'Assisi come generale dell'Ordine Francescano, ma pure lui pare abbia pensato ai versetti 8,33 del Vangelo di Marco quando è stato raggiunto dalla ferale notizia. Nella buona novella Gesù pronunciò quel "Vade retro Satana" che molti pensano abbia detto quando era nel deserto. No no, lo disse proprio a Pietro, andate a controllare. Il massimo che quel sant'uomo di Bonaventura poteva fare era una serie di prediche per sollecitare l'elezione del successore di Pietro. Anzi, alcune fonti dicono che sia stato proprio lui a sollecitare "i viterbesi a rinserrare tutti i cardinali affinché in tal guisa ristretti si risolvessero di conchiudere la sospirata elezione".
Neanche le prediche di Bonaventura sortirono il sospirato effetto. Le cose precipitarono, dopo più di un anno non si aveva ancora il papa e i viterbesi cominciavano a rumoreggiare. A quel punto il podestà Alberto di Montebuono e il capitano del Popolo Raniero Gatti, uomo di modi sbrigativi, presero in mano la situazione e decisero di chiudere materialmente nel palazzo papale i cardinali fino a che non fosse stato eletto il nuovo papa. Questo era un vero conclave! Li chiusero letteralmente a chiave. Murarono le uscite e arrivederci con il nuovo papa. I cardinali non la presero bene e scomunicarono il podestà. Da parte sua Raniero Gatti, meno diplomatico del podestà, prese in parola una battuta del cardinale inglese Giovanni da Toledo che disse agli altri porporati: «Discopriamo, signori, questo tetto; dacché lo Spirito Santo non riesce a penetrare per cosiffatte coperture.» Fu così che intorno alla Pentecoste del 1270, il 1° giugno, i viterbesi scoperchiarono parte del tetto del palazzo papale, sperando in questo modo di rendere facile il passaggio della santa colomba sul sacro consesso. Inoltre, per favorire la santità del collegio attraverso la pratica del digiuno furono ridotte le razioni di pasti per i cardinali.
In verità questa segregazione non durò a lungo. Il tetto fu fatto riparare dopo tre settimane dalle autorità comunali e fu consentito ai cardinali di occupare le altre stanze del palazzo papale. Rimase solo il divieto di lasciare il palazzo fino a elezione avvenuta. E i viterbesi fecero male a mollare la presa, perché i cardinali a quel punto se la presero comoda per un altro anno. Ma dopo più di 1000 giorni i cardinali, provati dallo sforzo e ansiosi di rivedere famigliari e amanti, decisero di tagliare corto. Il 1° settembre 1271 quindici cardinali, due erano assenti (ne restarono solo 15!), decisero di applicare il compromissum, ovvero affidarono a sei di loro il compito di eleggere il successore di Pietro, una sorta di commissione parlamentare. La decisione fu presa in quello stesso giorno dai sei membri e successivamente fu approvata e ratificata da tutti. Habemus papam!
And the winner is..., rullo di tamburi..., Tebaldo Visconti, arcidiacono di Liegi, che non era cardinale e neanche sacerdote. Più compromesso di così! Non aveva ricevuto i voti sacerdotali ma in compenso era considerato uomo onesto e saggio e per giunta aveva un impeccabile curriculum vitae et studiorum. Aveva fatto esperienza all'estero ed era collega all'università di Parigi di, udite udite, Tommaso d'Aquino. Insomma, non era uno sprovveduto. Al momento dell'elezione al soglio pontificio era in missione all'estero, al seguito del principe Edoardo d'Inghilterra in una qualche crociata in terra santa, all'epoca se ne facevano molte. Per fargli avere la notizia dell'elezione ci vollero quattro mesi. Non era come adesso che mandi una mail con un click. Una volta tornato in patria fece una carriera ecclesiastica fulminea. Venne ordinato prima sacerdote, poi vescovo e poi papa. Quando si dice un avanzamento professionale prodigioso! Era il marzo del 1272 e dopo più di tre anni dalla morte del precedente papa venne intronizzato il nuovo papa con il nome di Gregorio X.
Sebbene Gregorio X non avesse vissuto direttamente l'esperienza dell'elezione quando gliel'hanno raccontata deve essere rimasto parecchio impressionato. Per questo decise di approvare il conclave come metodo per eleggere il pontefice. Con la costituzione apostolica Ubi Periculum venivano stabilite le regole per l'elezione dei papi. Gregorio X prese a modello quanto avevano fatto i viterbesi. In poche parole i cardinali elettori sarebbero stati tutti segregati in un'aula, senza contatti con il mondo esterno e con graduale riduzione di cibo. In particolare la Costituzione apostolica precisava che, dopo tre giorni, il cibo veniva ridotto a un solo piatto a pranzo e a cena e che, dopo altri cinque giorni, sarebbe stato consentito solo il passaggio di pane, acqua e un po' di vino fino a elezione avvenuta con la regola dei due terzi sulla maggioranza dei votanti. E' interessante anche come la Costituzione stabilisse che ai negligenti sarebbe toccata la scomunica, la privazione dei pubblici uffici e l'attribuzione del titolo di infami.
Sia pure con le modifiche dettate dai tempi queste norme regolano ancora oggi lo svolgimento del conclave per l'elezione del papa.
Ecco in sintesi come si è arrivati al conclave così come lo conosciamo oggi. Voi mi direte, dov'è il suggerimento dalla Storia evocato dal titolo di questo post? Sarò breve.
Non so da quant'è che ci stanno martellando i cabasisi con la legge elettorale. Stabilito che solo un citrullo può aver concepito l'italicum e che solo un citrullo ha concepito il porcellum, c'è chi vuole il mattarellum, chi il legalicum, chi il consultellum e via vaneggiando con altre perle preziose di latinorum. Quanto durerà questa indecente pantomima?
Ma se si facesse come hanno fatto i viterbesi nel 1270?
Con i parlamentari dentro vengono murate le vie d'uscita di palazzo di Montecitorio e di palazzo Madama, ovviamente senza arrecare danni ai palazzi che oggi fortunatamente la sensibilità architettonica non è quella del XIII secolo. Si lascia il passaggio per qualche frugale vettovaglia da fornire solo nei primi giorni, poi neanche quella fino a legge elettorale approvata.
Come la vedete?