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sabato 15 dicembre 2012

Il dono più bello...

...una persona cui dedicare questi versi.


La canzone dei vecchi amanti

Certo ci fu qualche tempesta,
anni d'amore alla follia.
Mille volte tu dicesti basta,
mille volte io me ne andai via.
Ed ogni mobile ricorda
in questa stanza senza culla
i lampi dei vecchi contrasti,
non c'era più una cosa giusta,
avevi perso il tuo calore
ed io la febbre di conquista.
Mio amore, mio dolce mio meraviglioso amore,
dall'alba chiara finché il giorno muore.
Ti amo ancora, sai ti amo.
So tutto delle tue magie,
tu della mia intimità,
sapevo delle tue bugie,
tu delle mie tristi viltà.
So che hai avuto degli amanti,
bisogna pur passare il tempo,
bisogna pur che il corpo esulti
ma c'é voluto del talento
per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti.
Mio amore, mio dolce, mio meraviglioso amore,
dall'alba chiara finché il giorno muore.
Ti amo ancora, sai ti amo.
Il tempo passa e ci scoraggia,
tormenti sulla nostra via,
ma dimmi c'é peggior insidia
che amarsi con monotonia.
Adesso piangi molto dopo,
io mi dispero con ritardo,
non abbiamo più misteri,
si lascia meno fare al caso,
scendiamo a patti con la terra
però é la stessa dolce guerra.

Mon amour
mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour
de l'aube claire jusqu'à la fin du jour
je t'aime encore, tu sais, je t'ame.


Traduzione di Franco Battiato di La chanson des vieux amants di Jacques Brel (in Fleurs, 1999)

mercoledì 12 dicembre 2012

Io antidemocratico? Allora fuori dalle palle!

"La reazione immediata dei commentatori occidentali al crollo del sistema sovietico fu che esso ratificava il trionfo permanente sia del capitalismo sia della democrazia liberale, due concetti che gli analisti nordamericani meno sofisticati tendevano a confondere. [...] D’altro canto nessun osservatore serio nei primi anni ’90 potrebbe essere così ottimista sul futuro della democrazia liberale come lo è su quello del capitalismo. Il massimo che si possa prevedere con una certa fiducia (tranne, forse, per i regimi fondamentalisti di carattere teocratico) è che in pratica tutti gli stati continueranno a proclamare il loro profondo attaccamento alla democrazia, a organizzare elezioni di qualche tipo, a tollerare un’opposizione soltanto formale, proprio mentre ciascuno di essi interpreterà a suo modo la democrazia." Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991. BUR, 1997, pagg. 663-664.

"L'epilogo è stato la vittoria, che ha prospettive di lunga durata, di quella che i Greci chiamavano la «costituzione mista», in cui il «popolo» si esprime ma chi conta sono i ceti possidenti: tradotto in linguaggio più attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia dinamica e incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali. Scenario beninteso limitato al mondo euro-atlantico e ad «isole» ad esso connesse nel resto del pianeta. Pianeta che, altrove, viene messo in riga le armi in pugno. [...]
[...] Per parte sua, anche la democrazia ha avuto i suoi momenti di grandezza. [...] Ma questi momenti alti non hanno alla fine prevalso se non temporaneamente. La democrazia (che è tutt'altra cosa dal sistema misto) è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, «diritti»." Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un'ideologia. Laterza, 2004, pagg. 331-332.

"Data la difficoltà di sostenere una qualche forma di democrazia che si avvicini al modello più ambizioso, bisogna accettare come inevitabile il declino della fase democratica, fatte salve nuove fasi di crisi e cambiamento che consentano un nuovo impegno o, il che è più realistico in una società in cui sia stato raggiunto il suffragio universale, l'emergere all'interno del sistema esistente di nuove identità in grado di mutare le forme della partecipazione popolare. [...] Per la maggior parte del tempo, tuttavia dobbiamo aspettarci una condizione di entropia della democrazia. [...] E' probabile che in futuro molte delle conquiste relative alla trasparenza dei governi fatte negli anni Ottanta e Novanta saranno revocate, tranne quelle che sono essenziali agli interessi finanziari." Colin Crouch, Postdemocrazia. Laterza, 2003, pag. 17.

***

Che la democrazia sia in crisi si sa da tempo. Questo è un argomento serio che ha impegnato e impegna molti pensatori, ognuno con la sua prospettiva, ma devo ammettere che nessuno ha esposto la crisi della democrazia, anzi la morte della democrazia, più chiaramente di Beppe Grillo. Adesso restiamo in attesa di qualche milione di veri democratici, di autentici sacerdoti della purezza grillina che voteranno il movimento a 5 stelle.

E' possibile immaginare che questo paese non si meriti di passare da un conducator all'altro? E' ragionevole desiderare un popolo che si appassioni agli argomenti di chi parla con la testa e con un po' di cuore anziché alle persone che parlano solo con la pancia? E' ancora possibile sperare che chiunque voglia impegnarsi in politica, direttamente o indirettamente, lo faccia avendo la consapevolezza che è una materia complessa, che merita una visione complessa e non quattro battutine messe in fila in un monologo scatarrato in un blog o in faccia ad un pubblico desideroso di cambiamento e qualche vaffanculo?

***

Per reverenza nei confronti di un Maestro devo dire che Norberto Bobbio era molto critico nei confronti delle tesi sulla fine della democrazia nonostante fosse ben consapevole delle promesse non mantenute della democrazia. Nella nota all'edizione del 1995 di Il futuro della democrazia (Einaudi, 1995) scriveva:
"Ed ecco che, mentre stavo scrivendo queste pagine, arriva sul mio tavolo la traduzione italiana di un libriccino francese che ha per titolo La fine della democrazia, e comincia con questa domanda «Sopravviveranno le democrazie sino al 2000?» Non vorrei sbagliare, ma è una caratteristica dei periodi di decadenza il vezzo di abbandonarsi, compiacendosene o deplorandola, all'idea della fine. Ieri abbiamo sentito parlare addirittura della fine della storia. L'altro ieri, di fine della rivoluzione. Da alcuni anni, di fine del mito del progresso. Chi ritiene che sia cominciatà l'età post-moderna, proclama la fine della modernità. L'idea della fine della democrazia rientra perfettamente in questo nuovo millenarismo. C'era da aspettarselo. La fine della democrazia è però soltanto una congettura esattamente come quella opposta. Non ho argomenti razionali sufficientemente fondati per difendere la prima ipotesi piuttosto che la seconda. Soltanto, se cerco di seguire non la mia debole facoltà di capire e quella ancor più debole di prevedere, ma la mia forte facoltà desiderare e, nonostante tutto, di sperare, non ho dubbi sulla risposta."

Io sono meno progressista di Bobbio, del resto anche le mie facoltà di capire e prevedere sono ancora più deboli di quelle di Bobbio ma "la mia forte facoltà desiderare e, nonostante tutto, di sperare" mi impone un approccio ben preciso nei confronti della democrazia. Un grande analista delle dinamiche sociali come Gaetano Mosca "fece ricorso, a sostegno della sua tesi, certo pessimistica, dell'inesistenza della democrazia, «all'apologo - come scrive - di quel padre che morendo confidava ai figli che nel campo avito era sepolto un tesoro, ciò che fece sì che quelli ne sollevassero tutte le zolle, non trovando il tesoro ma aumentando notevolmente la fertilità del terreno». L'apologo può essere messo a frutto in molti modi, per esempio a sostegno della tesi che la fiducia nella possibile esistenza della democrazia ha di per sé effetti migliorativi («democratici» appunto); certo esso esprime bene l'inesistenza fattuale, e insieme l'indispensabilità della «democrazia» (beninteso nel suo senso pieno e originario)". Luciano Canfora, op. cit., pag. 333.

venerdì 7 dicembre 2012

Il nuovo che è avanzato: a volte ritornano


sabato 21 aprile 2012 22:11

"Il PORNO STATO. Patonza da Volpedo, di VAURO, è stato pubblicato per la prima volta il 28 settembre 2011 come inserto (pagine 12 e 13) de Il Fatto Quotidiano. Lo stesso giorno Vauro lo ha pubblicato sulla sua pagina Facebook ufficiale, ma nella notte successiva è sparito misteriosamente dalla sua bacheca assieme alle numerosissime condivisioni effettuate dai suoi 250.000 amici..."

giovedì 6 dicembre 2012

Del conflitto costituzionale e della leale collaborazione

Riprendo un articolo scritto ad agosto da Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte Costituzionale, per evitare commenti dopo la sentenza della Consulta sulle intercettazioni del Quirinale. L'articolo è di una lucidità cristallina, io mi limiterò a mettere in evidenza alcuni passaggi che ritengo particolarmente significativi. Non che io ritenga che ad una sentenza non si applici l'esercizio di critica, semmai è una questione di opportunità, ma diciamo che non voglio neanche da semplice blogger avallare comportamenti che finora hanno distinto personaggi indegni della vita pubblica che fortunatamente, anche se tardivamente, si avviano ad un rapido processo di autodistruzione.
L'articolo di Gustavo Zagrebelsky è del 17 agosto, due giorni dopo Eugenio Scalfari scrisse un articolo in risposta, seguito a sua volta da una replica di Zagrebelsky. Vale la pena leggere i tre articoli.
Da parte mia dico che trovai all'epoca le argomentazioni di Zagrebelsky assolutamente condivisibili e oggi, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, non ho motivo di cambiare opinione. Parafrasando il finale dell'articolo mi chiedo se c'era bisogno di un conflitto costituzionale che vincolasse la Consulta ad una sentenza che era necessario scrivere. E' tardi per porsi la domanda, era già tardi il giorno dopo la presentazione del ricorso da parte del Quirinale nei confronti della Procura di Palermo.


Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione
di Gustavo Zagrebelsky
la Repubblica, 17 agosto 2012

Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da altri
poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona.

Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante.

A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della tranquillità del diritto.

C'è ancora dell'altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento.

"In ogni caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale "Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente.

A questo punto, si entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

La "irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità", "intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della Repubblica.

Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una "operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti" tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori.

Nella Repubblica, l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira - la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica - attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la legge?

mercoledì 5 dicembre 2012

Capitale Umano


Qual è il valore della ricerca pubblica nel nostro Paese? Chi ci guadagna a trasformare l'ISFOL - ente pubblico di ricerca che si occupa di lavoro, formazione e inclusione sociale - in una società per azioni? E quali interessi ruotano attorno ai fondi europei per la formazione? Sono alcune delle domande poste in "Capitale umano", docufilm sulla battaglia dei 618 lavoratori e lavoratrici dell'ISFOL, che in tanti hanno occupato per oltre un mese l'istituto riuscendo a salvarlo dalla chiusura.
Attraverso la voce dei protagonisti, "Capitale umano" racconta la storia di una vittoria: sono ancora tanti i "cervelli che non fuggono", che mettono intelligenza, passione ed impegno per una ricerca intesa come bene comune.

Regia: Rossella Lamina, Nicola Di Lecce
Riprese e montaggio: Nicola Di Lecce
Produzione: Ass. Cult. Mondi Visuali

***

Riporto qui quanto c'è nel sito di youtube, dove il video è pubblicato. Da parte mia in tema di precariato ho poco da aggiungere a quello che scrissi tempo fa al Presidente della Repubblica, temo che la situazione non sia cambiata, non per tutti.
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